Scritti Misti

Macchia di inchiostro

Ufficio Solleciti e Illeciti. La scritta sulla porta andrebbe ritoccata. Afferro la maniglia e l’abbasso. Un puzzo di fumo mi aggredisce il naso, non posso non tirarla giù, anche se la gola mi va a fuoco. Chiudo la porta e procedo. Ho la scrivania sommersa da pile di buste da timbrare. C’è silenzio, la Pina non è in servizio oggi? Cerco il suo cubicolo, è vuoto. Meglio così, non ho voglia di scarrozzarla fino alla metro, che la bianchina ha il serbatoio quasi vuoto e che cazzo. Raggiungo la scrivania, tiro indietro la sedia e mi siedo. Infilo la mano sotto la pila delle lettere che oscilla. Ma dov’è il timbro? Strizzo gli occhi e mi mordo la lingua. Niente, guardo il cubicolo della Pina ed eccolo lì il mio timbro, vicino alla sua tastiera. Vecchia racchia sfatta, mai una volta che si fa gli affaracci suoi. Mi alzo e vado a recuperare il timbro, non mi resta che darmi da fare.

13.45, meno di un’ora alla fine del turno, mi scappa da pisciare.

La cruda luce bianca sfarfalla. Ahia!  Il bagliore nello specchio del bagno mi acceca. Passo la mano umida sulla faccia, le dita odorano di talco, buono. Apro un occhio, ora l’altro, dietro di me c’è un uomo alto e largo quanto un armadio a tre ante. «Oh! Chi è?»

Non mi risponde, ma ride e quel sorriso tira la sua bocca in una curva spietata che mi fa venire la pelle d’oca. Strappo un pezzo di carta dal dispenser e l’accartoccio tra le dita. Il tizio continua a fissarmi coi suoi piccoli occhi luccicanti. Chi cazzo è questo? Faccio per liberare il lavandino e andarmene, ma lui mi tira per il braccio. «Oi! Ehi! Mi lasci subito!»

Mi fissa, ha gli occhi gialli e maligni. 

Mi tremano le gambe. Che vuole da me? «Non ho soldi con me.»

«Pagina 482.» La sua voce bassa e graffiante mi annoda la gola. 

«Mi lasci andare!» Scrollo il braccio e lo tiro via con facilità, più di quanto sperassi. 

Il tizio mi lascia andare, ma ride, mi segue se non con lo sguardo da animale affamato mentre imbocco l’uscita. Cazzo, che paura. Mi metto a correre nel corridoio, non sento passi, solo la sua orrenda risata che risuona nelle mie orecchie.

Finalmente la hall. Non mi ricordo dove ho parcheggiato. Raggiungo il finestrone e mi affaccio. Eccola lì, la bianchina sta di fianco a un suv nero. Infilo le mani nelle tasche, per prendere le chia– aspetta, aspetta… l’angolo di un quadernetto mi punge l’indice, ma perché? Io non ne ho in ufficio. Lo tiro fuori dalla tasca: è piccolo e spesso, con la copertina bordeaux in pelle e una scritta dorata al centro: Il Grimorio delle storie incompiute. E chi ce l’ha messo nella mia tasca? Mi avvio verso l’uscita e getto il taccuino nel cesto dei rifiuti. Sarà stato quel soggettone che ho incontrato in bagno.

14:45, in perfetto orario per il pranzo con la Gina.

La cucina sprofonda nella semioscurità, spezzata di tanto in tanto dalla luce arancione di una Yankee Candle al profumo di frutti rossi. La tendina di pizzo della finestra corteggia la fiamma, mi ricorda la scena di una sto–

«Mi Esperanza en tus ojos!» 

Sobbalzo.

«Amor de mi vida y mi corazón» canta la tv sul mobiletto.

Gina è appollaiata sulla poltrona rossa, quella che alla televendita delle diciotto chiamavano Simonetta, o era Loretta? Lorella? 

Rigiro la minestra, ha un color fango che somiglia alla pappetta che davo da mangiare ai personaggi delle mie storie. Già, le mie storie…

La voce bassa e graffiante dell’uomo, me la sento ancora addosso. «Pagina 482.»

Sbarro gli occhi; c’è solo Gina nella stanza, con in testa i mostruosi bigodini rosa, ma non mi fido. Mollo il cucchiaio nella zuppa e allungo la mano verso il bicchiere di vino. Urto la bottiglia. «Gina, amore, vado di là.»

«Ssht!» Gina smanaccia l’aria senza girarsi. «Non vedi che Rodrigo sta per dire a Esperanza che è lui il figlio di Carlos?»

Un’ombra nera si allunga sulla tovaglia e plop; mi pesa la tasca. Il cuore inizia a battermi forte in gola e mi avvampa la faccia. Punto le mani sul tavolo e spingo indietro la sedia. Gina brontola, ma fanculo a Rodrigo a Carlos e a tutta la loro generazione. Aggrotto la fronte, qualcosa di umido e freddo sta colando vicino ai miei polsi: in..chiostro? Ma… ma… lascio la cucina di corsa. 

Gina urla, ma non voglio sentirla. Attraverso il corridoio, ed eccola lì, la mia stanza. Mi ci fiondo a testa bassa, spingo la porta, entro e chiudo a chiave. È buio e c’è odore di chiuso e di polvere, ma non importa, corro alla scrivania, dovrebbe esserci una lampada da qualche parte. La cerco a tentoni, urto il portapenne che tintinna e una vecchia pila di libri sulla destra, che solleva un polverone. Mi brucia la gola e mi pulsano i muscoli. Oh, ecco l’interruttore, lo spingo verso l’alto e… le mie mani sono nere! 

«Pagina 482.» 

Lo stomaco mi si contrae e mi viene da vomitare. Mi guardo attorno, ma la stanza è vuota, ci sono solo io. Perché continuo a sentire quella voce? Cerco il taccuino nella tasca, non c’è. Sto impazzendo? Diamine, sarà uno scherzo stupido del Ragioner Miletti? Mi accarezzo la fronte e sospiro, domani gliela faccio vedere io a quel raccomandato del cazzo. Stringo il pugno sulla scrivania mentre mi massaggio le tempie, ma qualcosa di rigido mi punge la mano. Trattengo il fiato.

Il Grimorio delle storie incomplete è sulla mia scrivania, si apre da solo e le pagine scorrono a velocità impressionante. Cerco la finestra, è chiusa da dieci anni. Allora com’è possibile che le pagine… i numeri si susseguono rapidissimi fino a quattrocento. Riesco a leggere un titolo: “Dita d’inchiostro” e poche righe confuse: “Francesco Giannuzzi, ufficio illeciti e solleciti. Scrittore che ha rinunciato, appeso la penna al chiodo. Il posto fisso.” Ma è la mia storia! Ma sono io! 

Le pagine rallentano, rimangono fisse in aria e piano ripiegano a sinistra. Davanti a me c’è pagina quattrocentottanta: “La Gina sta appollaiata sulla poltrona che alla televendita delle diciotto chiamano Simonetta, o Loretta? Lorella?” Sbarro gli occhi, provo a farmi indietro ma non ci riesco, il mio corpo è bloccato, non risponde. La mia mano chiusa a pugno non si schioda dalla scrivania, nemmeno quella che ho vicino alla faccia. Le dita nere d’inchiostro appaiono sfocate al margine del campo visivo. È come se mi stessero risucchiando gli organi dal naso. Mi batte la testa e dietro gli occhi. «Gina!» Ma la mia voce è solo un’eco nella mia mente, non fuoriesce alcun suono dalla bocca. Ci riprovo. «Gina! Aiuto!» Niente, riesco a malapena a inquadrare le ultime frasi scritte in cima a pagina quattrocentottantadue: “E il Grimorio delle storie incomplete divorò la sua anima e Giannuzzi finì–”